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Perché, senza l'amaro, amico mio, il dolce non è tanto dolce.
Morire è l'ultima cosa che farò.
Dai, dai, che tocca anche a te, morire ad oltranza che male c’è, tu prova a scappar, raccomandati ai santi, ma dovremmo alfine morir tutti quanti.
Non è che ho paura di morire. È che non vorrei essere lì quando succede.
Ricordate quei poster con la scritta "Oggi è il primo giorno del resto della tua vita"? Beh, questo è vero per tutti i giorni tranne uno: il giorno che muori.
Morire è la cosa peggiore che mi sia mai capitata.
Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c'è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme ed è troppa...il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare...e poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta...e dopo scorre attraverso me come pioggia... e io non posso provare altro che gratitudine per ogni singolo momento della mia stupida piccola vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro. Ma non preoccupatevi, un giorno l'avrete.
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É appena finita poco fa davanti ai miei occhi increduli la prima stagione di Heroes. Sti ultimi episodi ce li siamo proprio dovuti sudare: da un giorno all’altro ti scompare la serie sotto gli occhi e nella tua mente inizi a pensare che tutti i superpoteri nella serie hanno contagiato la serie stessa che è diventata invisibile ai fan italiani. Nessun super potere, solo supercoglioni. Luca Tiraboschi (direttore di Italia 1) cancella la programmazione a 4 episodi dalla fine a causa dei bassi ascolti. Poi ci ripensa, si accorge di aver fatto una cazzata e puffete eccoti i 4 episodi in seconda (facciamo terza) serata. Per pubblicizzarli poi sti 4 benedetti episodi girava lo spot su Italia 1 con la vocina che diceva: “gli ultimi impedibili episodi”. Impedibili? Ma se fino a dieci minuti fa me li avevi liquidati? Mah...
Comunque sia sta prima stagione nonostante tutto ci è piaciuta e pure tanto, non oso immaginare cosa dovrà fare un povero spettatore italiano per vedersi la seconda che in America è in onda in questo periodo.
Per chiunque si trovava a Instambul durante la programmazione di Heroes, la serie parla di un gruppo di persone che in seguito a mutazioni genetiche spontanee acquisiscono poteri sovrumani: un soggetto talmente banale da essere geniale. Il creatore Tim Kring si è inventato questo gruppo di x-men e si è messo lì a raccontarceli in una dimensione più quotidiana che fantascientifica dove non ci sono né costumini aderenti né mascherine dai colori sfavillanti. Ci sono persone che vivono una vita con dei superimprevisti: complotti, agenzie segrete, intrighi politici e colpi di scena che non ci dormi la notte. Il tutto adagiato su una trama talmente intrecciata che nemmeno Hitchcock riuscirebbe a strecciare. Vabbè non esageriamo, Hitchcock ci riuscirebbe. A me ci vogliono venti minuti per capire quello che succede. Insomma è una delle poche serie che non mi annoia e che è fatta benissimo. Ma allora perchè tutte ste belle cose non trovano riscontro nel pubblico italiano? Perché siamo una massa di idioti? Anche. La spiegazione principale la troviamo nel successo che la serie ha negli States: una schiera di 15 milioni di adepti-spettatori. E ora svelo il trucco: Heroes è un allegoria della cultura americana e agli americani, si sa, piace tanto vedersi in tv. L’america è piena di gente banale che cerca di essere speciale, il mitico sogno americano. Il cattivo della serie, Sylar, è un comune orologiaio che con la voglia di essere qualcuno finisce per essere qualcosa di veramente speciale: un super cattivone mangia cervelli. Morale: non sempre è giusto voler essere qualcuno a tutti i costi. C’è poi nella serie una mitica bomba nucleare che minaccia di radere al suolo New York e c’è chi cerca di trarne vantaggi politici. Spiegazione: 11 settembre 2001 dice niente? Troviamo inoltre in Heroes tutte l’etnie possibili, una grande varietà di lingue, culture che si mescolano, cheerleader, sfigati, poliziotti, esaltati, drogati, doppie personalità, pazzoidi... non c’è dubbio: è l’America.
Noi italiani siamo talmente menefreghisti che non ce ne fotte niente di guardare una così bella messa in scena del popolo americano di oggi. Pazienza. Mentre attendo con ansia l’arrivo della seconda stagione in Italia (incrociando le dita), mi gusto le varie parodie che circolano in rete: geniali come la serie stessa.
Quasi dimenticavo: “Salva la cheerleader, salva il mondo!”
Sono proprio un esaltato del cazzo.
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L’ultimo capolavoro di Terry Gilliam (il regista di Paura e delirio a Las Vegas e de I frateli Grimm per intenderci), Tideland il mondo capovolto, è uscito in tutto il mondo nel
Terry Gilliam durante i vari festival, feste del cinema e viadicendo, viene osannato come un guru del cinema, il maestro, il genio, etc… Poi quando arriva al dunque le critiche lo massacrano sempre e i suoi film sono sempre insuccessi, in parole povere: non se lo cagano più di tanto (In Italia ci sono solo 25 copie di Tideland). È un po’ lo sfigato della situazione: ogni volta che deve racimolare un po’ di soldi per fare un film è un impresa e alcuni suoi progetti non sono mai andati in porto, c’è un Don Chisciotte dal titolo Lost in Mancia che non si sa più che fine abbia fatto: si è letteralmente perso.
Secondo me Terry è un mito: è uno di quei pochi registi che riesce a mescolare in maniera così sublime e visionaria la realtà e la fantasia facendoli scorrere uniformemente su un nastro di celluloide senza che te ne accorgi. Quindi successo o insuccesso poco ce ne importa di fronte a cotanta bellezza.
Tideland è un viaggio allucinante dentro il mondo fantastico di una bambina che evade da una realtà in cui padre (dalla vita breve) e madre (dalla vita brevissima) sono costantemente imbottiti di eroina. È ispirato da un romanzo di Mitch Cullin: leggenda vuole che mentre Terry lo leggeva telefonò a Mitch dicendogli che immerso nella lettura gli era venuto in mente il quadro Christina’s world di Andrew Wyeth, un noto pittore americano del novecento.
Leggenda vuole che Mitch disse a Terry che mentre scriveva il romanzo aveva in mente lo stesso quadro. Da cosa nasce cosa ed ecco fuori Tideland con la sua casa nella prateria in mezzo a campi di grano, il tutto identico al quadro. La bambina nel quadro è una bambina con dei disagi fisici che cerca di rientrare in casa. La bambina nel film, la mitica Jeliza-Rose (muahahah!), non ha invalidità fisiche ma psichiche ed emotive. Queste carenze la portano a crearsi strane fantasie per riuscire a sopravvivere. Gli occhi di una bambina di dieci anni diventano quindi la folle visionarietà di Terri Gilliam: una poesia che prende vita da una psichedelica deformazione della realtà.
Allucinanti quasi più del film stesso le cose politicamente scorrette che si ritrova a fare questa povera bambina, come ad esempio preparare la dose di eroina al padre che deve concedersi la sua meritata “vacanza”. Il film dà inoltre una prepotente scossa a strani tabù quali: la voglia di uccidere, baciare un essere deforme e imbalsamare i nostri cari. Un applauso con tanto di applausometro allora alla fichissima Jodelle Ferland (l’attrice undicenne che interpreta la bambina protagonista) che non solo ha saputo muoversi con naturalezza davanti a tutte queste cose ma ha anche dimostrato di saper recitare come solo una bambina sa fare. E che bambina! Il film, infatti, vuole essere anche una critica a quei bambini americani stupidi, vittime del mondo e perfetti.
Degni di nota poi i parallelismi con “Alice nel paese delle meraviglie” quasi enfatizzati: la tana, lo scoiattolo-bianconiglio, la curiosità, la regina cattiva… Io ci ho visto anche quel tanto di pedofilia che caratterizzava a suo tempo Lewis Carroll. E ci ho visto anche un bel po’ di Psycho Hitchcockiano con questo culto dell’imbalsamare…
Comunque sia: da vedere sia da lucidi (per capirlo) sia da non-lucidi (per farsi una bella “vacanza” lì dove nascono i sogni).
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La fisiognomica: finalmente
Tralasciando i clichè, i luoghi comuni sui francesi, sulla cucina francese, e la classica storia del “diverso”, ci sono piaciute poi le varie gag al punto giusto, i formidabili titoli di coda, le varie citazioni e i vari ammiccamenti e soprattutto il fatto che uno dei personaggi principali della storia sia un morto che parla, frutto dell’immaginazione di un topo… Mica pippano questi… Noooooooo!
Infine la bella morale Disneyana che piace tanto: chiunque se ci crede veramente può fare qualsiasi cosa.
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“La vita è un rischio che nn si può fare a meno di correre.”
Il 6 novembre è morto Enzo Biagi, 87 anni. Il (e sottolineerei IL) giornalista, la voce più sentita e più letta della seconda metà del novecento. Di lui non so abbastanza per poterne dire qualcosa, comunque ricordo sin da quando ero un giovinotto di sette anni la musichetta dopo il tg de “Il fatto”, la sua trasmissione più famosa: iniziata nel 1995, era seguita mediamente da sei milioni di telespettatori. Ricordo benissimo anche quando la trasmissione chiuse i battenti nel
Su Vanity Fair di questa settimana Gad Lerner lo definisce “una sorta di papa Giovanni del giornalismo”, invece Mentana ricorda quando aveva provato ad averlo ospite a Matrix e la sua replica papale papale: “Io sulle reti di quello non ci voglio apparire”. Chissà come avrà reagito “quello”, il suo acerrimo nemico, alla notizia della morte di Biagi. Che faccia avrà fatto? Che emozione avrà provato? Mah…
La cosa che mi dà più fastidio è che se ne va una mente così intelligente. Uno passa tutta la sua vita ad accumulare informazioni, sapere e cultura e poi… puff svanisce tutto. Che rabbia! Dall’alto dei suoi 87 anni chissà quante cose c’erano dentro quella testa, peccato non sia una cosa che si può lasciare in eredità (frase da cinico spietato).
Comunque sia, per finire riciclo una frase di James Matthew Barrie: “Morire sarà una sgradevole grande avventura.”
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E anche questo Halloween è passato con il suo makeup, con le sue ragnatele finte, con le sue zucche di plastica, con l’alcool e soprattutto con il postalcool…
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